2003

Premio Artusi 2003 allo Chef FABIO PICCHI

Fabio PicchiIl nome di Fabio Picchi è indissolubilmente legato a quello del “Cibreo” (nome preso da un antico piatto a base di rigaglie di pollo), ristorante di culto da lui fondato nel 1979 in pieno centro a Firenze.

Nato il 22 giugno 1954 a Firenze, padre di 4 figli, Fabio Picchi abbandona presto gli studi universitari di Scienze Politiche per dedicasi interamente alla passione principale della sua vita: la cucina.

A soli 24 anni – Picchi apre il Cibreo che all’epoca comprendeva un ristorante con annessa una piccola tratteria. Nel corso degli anni l’attività viene ampliata con l’apertura di un caffè, un negozio di alimentari e, recentemente, un grande spazio eno-gastronomico-culturale dal nome “Teatro del Sale – Cibreo città aperta”, che comprende un teatro, uno spazio convegnistico ed una cucina modello anni ’50. L’arte gastronomica di Picchi si è estesa anche all’estero, con l’apertura in franchising, a Tokyo, di due ristoranti e un caffè con il marchio Cibreo.

La cucina del Cibreo rappresenta una vera e propria filosofia culinaria, con caratteristiche ben precise che fanno di Fabio Picchi uno dei cuochi più apprezzati e rinomati in Italia e all’estero: la scelta di prodotti di grandissima qualità, freschi e di stagione, scovati magari nel campo di un contadino o sui banchi del mercato all’aperto di Firenze; l’offerta di piatti semplici della tradizione toscana, ma rivisti e corretti dalla sensibilità e maestria di un gourmet raffinato come Picchi; la riscoperta di prodotti tipici ormai in via di estinzione, con l’esaltazione di sapori in parte dimenticati.

Tra i tanti incarichi di responsabilità che ricopre nel settore gastronomico e culturale, Fabio Picchi è presidente della sessione cine-gastronomica del Festival del cinema europeo, è autore del format radiofonico “Opinioni di un cuoco”, è presidente cittadino della Confesercenti, il più grande sindacato di commercianti di Firenze, è socio fondatore dell’associazione Toscana Europa, rappresentata presso il Parlamento Europeo.

Il New York Times scrive: Fabio Picchi parla come un poeta e cucina come un mago.
A Fabio Picchi viene assegnato il Premio Artusi 2003 per aver saputo creare una vera e propria filosofia gastronomica rimanendo fedele ad alcuni principi all’apparenza semplicissimi, ma assai difficili da rispettare: amore per l’essenzialità dei piatti della tradizione, la riscoperta di prodotti tipici ormai in via d’estinzione; l’esaltazione di sapori in parte dimenticati; la scelta di prodotti di grandissima qualità. Norme che sembrano uscite dalla penna di Pellegrino Artusi e che hanno ispirato una cucina personalissima, in cui i piatti della tradizione vengono sapientemente rivisitati dalla sensibilità e maestria di Picchi, che si conferma una grande firma della cucina italiana.

Premio “Pellegrino Artusi” a VANDANA SHIVA (INDIA)

Vandana ShivaVandana Shiva è una scienziata e filosofa indiana, conosciuta in tutto il mondo per la sua militanza in favore dell’ambiente e, in particolare, delle colture locali e della biodiversità.

Nata nel 1952 nella verde valle di Dehra Dun, in India, Vandana ha conseguito la laurea in fisica presso la Western Ontario University, e ha in seguito ampliato i suoi studi in India, occupandosi di scienza, tecnologia e politica ambientale.
Nel 1982 Vandana Shiva ha fondato a Dehra Dun, in India, un importante istituto di ricerca dal nome Research Foundation for Science, Technology and Ecology (su Internet all’indirizzo www.vshiva.net), che si occupa di scottanti tematiche legate al fenomeno della globalizzazione, come lo sviluppo sostenibile, la sicurezza alimentare, il grande squilibrio nord – sud del mondo ecc. In particolare, l’attività di Vandana Shiva e del suo istituto di ricerca ha come obiettivo primario la difesa delle colture tipiche e della biodiversità, minacciata dai prodotti imposti dalle multinazionali e dall’economia di mercato mondiale che permette una concentrazione senza precedenti del controllo del sistema agroalimentare internazionale, a scapito dei paesi più poveri.

Tra i tanti settori di cui si occupa l’Istituto, riveste grande importanza il Navdanya Conservation Farm, nome dato al programma di conservazione e di salvaguardia della biodiversità agricola e dei semi nativi (Navdanya significa “nove semi”), a tutela della grande ricchezza degli agricoltori del terzo mondo: la biodiversità.

Negli ultimi anni, l’impegno di Vandana si è esteso in tanti settori, come la difesa della proprietà intellettuale, l’emancipazione delle donne nei paesi in via di sviluppo, la lotta contro la pirateria genetica. Per la sua militanza Vandana ha ricevuto numerosi riconoscimenti in tutto il mondo, tra cui il Premio Nobel Alternativo nel 1993 e la Medaglia della Presidenza della Repubblica Italiana nel 1998.

Vandana Shiva è autrice di numerosi libri, tra cui molti tradotti in italiano: Sopravvivere allo sviluppo (Isedi, Torino 1990), Monocolture della mente (Bollati Boringhieri, Torino, 1995), Biopirateria (Cuen, Napoli, 1999), Vacche sacre e mucche pazze (DeriveApprodi, Roma, 2001), Terra Madre (Utet, Torino 2002), Il mondo sotto brevetto (Feltrinelli, Milano 2002).

A Vandana Shiva viene assegnato il Premio Artusi 2003 per l’impegno con cui da anni si batte a favore dell’ambiente e a difesa delle colture locali e della biodiversità. Molto prima che la globalizzazione diventasse un tema fondamentale per l’intera comunità mondiale, ha capito la necessità e l’urgenza di affrontare questioni scottanti come lo sviluppo sostenibile, la sicurezza alimentare, lo squilibrio fra il nord e il sud del mondo. Fra i frutti della sua attività c’è il Navdanya Conservation Farm, creata per la conservazione e la tutela della grande ricchezza degli agricoltori del terzo mondo: la biodiversità agricola. Oggi la sua battaglia continua ed ha allargato il suo campo di verso altri settori, come la difesa della proprietà intellettuale, l’emancipazione delle donne nei paesi in via di sviluppo, la lotta contro la pirateria genetica.

Intervento della filosofa scienziata indiana Vandana Shiva nell’incontro pubblico del 22/06/2003

“Le patate che hanno bisogno di una misura”
Contro la monocultura della mente: la biodiversità come questione di democrazia

Vandana ShivaDa qualche anno mi occupo di biodiversità. Io in realtà per formazione sono un fisico e occuparmi della biodiversità non era quello che pensavo di fare da bambina. In realtà quando avevo vent’anni ero innamorata della fisica e della teoria dei quanti, questioni diverse rispetto a quelle di cui mi occupo attualmente. Ho dovuto interrompere questa “storia d’amore” con i quanti per un’altra storia d’amore e questa seconda storia d’amore è l’amore che spero tutti condividiamo per la vita sulla terra, che deve essere un’espressione comune d’amore per tutti.

Le prime persone ad insegnarmi il valore della terra e della biodiversità sono state le donne del mio villaggio sull’Himalaya. Più in particolare, qualche tempo fa, mentre le foreste del mio paese – che erano popolate da centinaia di specie diverse – venivano distrutte per creare delle immense pinete, le donne del mio villaggio andarono in queste foreste e abbracciarono gli alberi opponendosi in tal modo a questo processo. Essi affermavano con tenacia: “non permetteremo che questo accada”.

Immediatamente mi accorsi che quelle donne che non erano mai state a scuola o, perlomeno, non in una scuola istituzionale dove ti insegnano a leggere e scrivere, erano però state alla scuola della natura, avevano imparato a conoscere ogni singola specie che esisteva nelle nostre foreste e soprattutto erano persone che abituate a quello che succedeva all’interno di queste: per esempio, come conservare tali specie, anche nei periodi in cui alluvioni incredibili distruggevano tutto. Esse conoscevano tutti fenomeni che avvenivano nelle foreste.

I miei primi studi sono stati dedicati a trovare una spiegazione, una giustificazione ad una conoscenza che in realtà già esisteva, ed è stato altrettanto facile capire che, da un punto di vista biologico ed ecologico, quelle foreste erano altamente più produttive delle coltivazioni artificiali di pini e di eucalipti e che quel processo di “trapianto” avrebbe impoverito quelle foreste. Ciò che apparentemente rendeva le coltivazioni artificiali più produttive era il fatto che i prodotti della foresta non erano commerciabili sul mercato del legno. Mi ricordo di ufficiali del corpo forestale che mi raccontavano che il problema delle querce presenti nella foresta era che non erano buone per la cucina, non era un legno buono da bruciare. Da un punto di vista più naturale, invece, questi stessi alberi erano fondamentali perché davano da mangiare con le loro foglie al bestiame, perché filtravano l’acqua e permettevano l’infiltrarsi nell’humus del terreno dell’acqua e quindi ci permettevano di avere maggiori riserve nel corso del tempo.

Vandana ShivaMi resi conto subito che i problemi principali per quelle persone, cresciute ed istruite con una mentalità di tipo cartesiana, erano due. Il primo problema è quello che io chiamo monocultura della mente: queste persone erano abituate a considerare, a vedere, un unico aspetto alla volta, mentre la natura ci ha attrezzati veramente per vedere centinaia di migliaia di cose contemporaneamente, allo stesso tempo. Un secondo problema, strettamente correlato a questo, è proprio quello della linearità: infatti, solo una linea può essere realmente misurata secondo la mentalità di queste persone, perché nella mentalità cartesiana c’è questa idea pazza, folle, che solo ciò che può essere misurato ha realmente un valore, esiste veramente. Ma tutti sappiamo, e lo sappiamo da secoli, che noi conosciamo non solo ciò che riusciamo a misurare, ma conosciamo attraverso tutti i nostri sensi: quindi attraverso il gusto, attraverso il tatto, attraverso la vista e ci sono migliaia di modi in cui noi arriviamo a conoscere quello che ci circonda, non solo misurando.

Questo mondo della monocultura della mente, basato esclusivamente sulla linearità, ha creato solo un mondo della quantità. Ma anche questo criterio, in un mondo basato sulla linearità e sulla monocultura, ha comunque qualcosa di sbagliato. In un mondo così isolato ciò che è meno può apparire più e ciò che è più può apparire meno. Un esempio di questo concetto è il concetto errato di “rivoluzione verde”, GreenEvolution, ovvero l’introduzione di pesticidi chimici e fertilizzanti per combattere la fame e produrre più cibo. Non c’è niente di più sbagliato.

Io stessa ho realizzato degli studi disponibili in tutto il mondo, che possono essere consultati facilmente, per dimostrare che i prodotti ottenuti attraverso l’incremento della biodiversità rendono da 10 a 100 volte di più rispetto ai prodotti creati attraverso la monocultura.

Ma per poter valutare in modo corretto la biodiversità bisogna avere un tipo di mentalità non cartesiana. Quando però si è accecati dai valori della monocultura è impossibile vedere i risultati reali della biodiversità. Si potrebbe essere di fronte ad una cosa immensa e vederla come misera, povera. Ad esempio nel nostro sistema un’azienda agricola che riusciva ad avere fino a 250 tipi di coltivazioni veniva considerata povera. Si pensi che nella nostra agricoltura erano normalmente coltivate piante come il mango, la banana, vari semi da olio: sono stati considerati poveri e distrutti in favore di monoculture, in particolare il riso, che hanno impoverito notevolmente la nostra agricoltura.

Ad esempio per coltivare, per porre maggiore attenzione al grano sono stati ignorati completamente i semi di senape che sono estremamente produttivi nella nostra coltivazione: questa è stata una grossa perdita per la nostra agricoltura.
Tutte queste specie diverse che crescevano all’unisono aumentavano la nostra produttività e quindi la biodiversità poteva svolgere la propria funzione. Una volta che ci si libera letteralmente di questa biodiversità bisogna investire in ecosistemi produttivi.

Come si può bene immaginare, però, i veleni non possono sostituire i pesticidi naturali, questi sistemi artificiali non possono svolgere ciò che l’ambiente è in grado di svolgere da solo. E tutti questi agenti chimici che sono definiti come input esterni sono veramente delle armi di distruzione di massa.

Tutti gli agenti chimici utilizzati in agricoltura derivano da processi non naturali. E derivano soprattutto dall’industria militare, pensate ad esempio ai composti del nitrogeno che derivano dalle armi. I pesticidi sono stati progettati in origine per uccidere le persone. E questo per noi è stata una cosa chiara ed evidente nel 1994. Si ricorderà forse che nel 1994 nella città di Bopal c’è stata un’esplosione in un’industria chimica che produceva pesticidi sono morte 300 persone per l’esalazione di questi gas che derivarono dall’esplosione e, dal 1994 ad oggi, 30.000 persone sono morte a causa degli effetti di questa esplosione. Anche gli erbicidi come il 24D hanno origini belliche sono stati utilizzati, infatti, durante la guerra del Vietnam.

Le monoculture quindi non sono solo qualcosa di distruttivo, ma sono qualcosa che può essere mantenuto solo attraverso un’atroce violenza.
Si può ben immaginare la correlazione tra l’industria militare e l’industria degli agenti chimici: lo stesso tipo di violenza, la violenza che c’è nelle guerre, c’è nella violenza dei pesticidi.

Ma è anche una violenza nei confronti delle nostre menti e della nostra libertà. Secondo me tale violenza nei confronti delle nostre menti consiste nel progettare cose false come se fossero cose vere, reali.
E, sempre secondo me, la violenza nei confronti della nostra libertà sta nel negarci il diritto di decidere liberamente e nel fatto che ci vengono negate le informazioni necessarie per la nostra consapevolezza. Perché noi possiamo prendere le nostre decisioni con totale consapevolezza. I conflitti che stanno intorno, relazionati con l’ingegneria genetica, sono un esempio di questa violenza. Un esempio chiaro di questa violazione della libertà è il discorso fatto da George Bush recentemente in cui si dichiarava che l’Italia sarà portata all’interno dell’organizzazione mondiale del commercio proprio per obbligarla ad accettare gli organismi geneticamente modificati: questa è una violazione dei nostri diritti.

Ma ci siamo resi conto di quanto la realtà, l’informazione, sia manipolata perché stanno cercando di convincerci che gli organismi geneticamente modificati sono qualcosa di altamente sofisticato e che ci potranno aiutare a risolvere i nostri problemi dell’alimentazione: questo, in realtà, non è vero.
Ciò che ho appreso dalla biodiversità è che gli strumenti e i prodotti degli OGM, dell’ingegneria genetica sono estremamente dannosi e non hanno tutto questo fondamento.

Una tecnologia si può definire sofisticata se si migliora attraverso i risultati già ottenuti. È un regresso se invece peggiora la realtà dei fatti. Per valutare la bontà di queste tecnologie bisogna fare almeno due cose. La prima è senz’altro avere delle alternative con cui fare un confronto. La seconda è quella di riconoscere che la tecnologia è uno strumento e non un fine in se stesso.
Lo stato di evoluzione dell’umanità non verrà mai misurato con l’evoluzione della genetica. E nemmeno attraverso gli introiti che avranno le società quotate in borsa e i ricavi che avranno le multinazionali. Lo stato di evoluzione umana verrà valutato con due criteri: a) lo stato di salute dell’uomo; b) il valore ecologico, che è quello che ci permette di ottenere la salute che stiamo cercando.

Se si analizzano e valutano i cibi che ci vengono proposti attualmente, che in qualche modo ci chiedono di mangiare, ci si accorge che sono tutti resistenti agli erbicidi e soprattutto hanno al loro interno delle tossine, e che quindi sono potenzialmente dannosi.

Questi alimenti che sono resistenti agli erbicidi, in realtà, sono definiti anche – se si pensa al grano – come “super grano” che invece di essere migliore in realtà crea delle pesti ancora più grandi, delle “super pesti”, perché comunque la natura si moltiplica e si migliora anche in base ai pesticidi che utilizziamo. La biodiversità è senz’altro una soluzione per controllare la crescita e la coltivazione del grano ma anche per controllare le malattie. Il grano può crescere meglio in una fattoria con questo tipo di coltivazione. Non ci sono problemi di malattie derivanti da queste coltivazioni laddove vengono utilizzati i metodi della biodiversità, dove si può prevedere un tale problema.

La biodiversità è sicuramente un metodo più sofisticato rispetto alle tecnologie utilizzate attraverso l’ingegneria genetica.

Vorrei però porre l’attenzione su altri due esempi, definiti miracolosi dalla stampa e dai media internazionali: il “riso d’oro” e la “patata miracolosa”. Il Times ed il News Week hanno fatto delle copertine intere su questo argomento. Anche sull’edizione internazionale dell’Herald Tribune è stata dedicata una pagina intera a questo argomento.

Ciò che si diceva in questi articoli è che il riso non geneticamente modificato non era in grado di produrre vitamina A e che quindi i bambini del terzo mondo sarebbero diventati ciechi. Grazie all’ingegneria genetica 100 grammi di riso geneticamente modificato potevano produrre 30 microgrammi di vitamina A. Sull’Himalaya, zona in cui vivo, è stata misurata la quantità di vitamina A contenuta nel riso rosso che qui si produce, ed essa è notevolmente superiore alla quantità prodotta da questo riso geneticamente modificato. Ma in ogni caso, anche se abbiamo questo tipo di riso, quando ci troviamo di fronte ad una carenza di vitamina A noi non ricorriamo al riso ma utilizziamo la papaia, la zucca, il coriandolo, tutti altri frutti e vegetali ricchi di vitamina A, non abbiamo per forza bisogno del riso.

Se facciamo un paragone rispetto ai 30 microgrammi di vitamina A che il riso geneticamente modificato può produrre i nostri prodotti possono dare fino a 1400 microgrammi di vitamina A: una differenza incredibile. Quindi l’ingegneria genetica è 60 volte meno abile nel fornire una soluzione a questo problema.
Dieci giorni fa, e siamo al secondo esempio, hanno scoperto questa incredibile patata proteica. Come è noto, una patata può avere circa 2 milligrammi di proteine al suo interno. Ora vogliono utilizzare l’ingegneria genetica per portare questa quantità a 2,5 milligrammi. Ma quando si vuole mangiare delle proteine si può mangiare pesce, carne, quindi ricorrere ad altri strumenti. Nel mio paese abbiamo un prodotto specifico, un frutto, che è il nostro fornitore ufficiale di proteine. Di questo frutto abbiamo 64 diverse varietà di semi che hanno 64 nomi diversi, non starò qui ad elencarli tutti.

Volontariamente non vi sto menzionando i nomi inglesi di questi semi, perché gli inglesi quando sono arrivati nel nostro paese non sapevano cosa farsene di questo nostro meraviglioso cibo. E così hanno cominciato a darlo agli animali e ai polli. Quindi questa meravigliosa fonte di proteine è stata battezzata, in un caso, “piselli per i polli”, nell’altro “piselli per le mucche”, o ancora “piselli per i cavalli”. Davano questi semi agli animali. Ogni singolo seme veniva dato ad un animale diverso e dunque gli inglesi hanno chiamato questi semi con il nome degli animali a cui veniva dato. Mi sono accorta in questi dieci anni di lavoro che non esiste per questi semi, di cui noi in realtà ci nutriamo abbondantemente, un nome inglese che sia adatto ad un essere umano. Il colonialismo inglese ha quindi cercato di farci dimenticare che questi erano cibi diretti ad esseri umani, e invece quello che sta cercando di fare il nuovo colonialismo è di farci dimenticare che essi sono fonti di proteine. Per fare un paragone, la nuova patata geneticamente modificata darà 2,5 milligrammi di proteine mentre i nostri semi ce ne danno 24 di milligrammi.

Per me la biodiversità è importante perché il mondo è davvero più bello e migliore con la biodiversità. Il mondo è ecologicamente più sicuro perché la biodiversità è la fonte del rinnovamento ecologico della vita. Il mondo è anche più sicuro perché l’auto-organizzazione delle varie specie è strettamente correlata e collegata alla biodiversità. Nella mia prospettiva, la biodiversità non è solo una questione di diversità biologica, ma è anche una questione di democrazia.

Questo discorso si collega a quello che è stato sviluppato precedentemente. La perdita di questa biodiversità potrebbe essere un modo per distruggere ciò che è veramente importante nella nostra cultura. Nella parte settentrionale dell’India è stato detto agli agricoltori di coltivare patate. E gli è stato detto di non coltivare questo tipo di vegetali per uso proprio, ma di crescerli e coltivarli per l’esportazione. Così tutti si sono messi a coltivare patate. Ma nessuno le ha volute. A questo proposito, ho partecipato ad un dibattito televisivo con il ministro dell’agricoltura, ed è stato un programma che è stato trasmesso in diretta proprio in un momento in cui c’erano centinaia di agricoltori che si stavano suicidando per il disastro economico causato da questo processo. Il ministro dell’agricoltura ha detto che non potevano comprare queste patate perché erano della misura sbagliata. In India non esiste niente che possa essere definito come una patata “dalle misure sbagliate”. Perché è possibile utilizzare patate di ogni dimensione. Di ogni misura. Ad esempio è possibile fare patate arrosto con la pelle utilizzando quelle più piccole. Quelle più grandi possono essere tagliate a pezzi e cucinate in moltissimi modi. Quindi non è importante la dimensione della patata in una fase iniziale. Ci sono centinaia di piatti in cui utilizziamo patate bollite, e una patata bollita non ha una misura, una dimensione. L’unica patata che ha bisogno di una misura è la patata di McDonald. E anche le patate della PEPSI. E questa è la misura giusta per questo tipo di patate, per la standardizzazione della patata. Quindi, ho chiesto al ministro durante il dibattito, “lei sta dicendo che dobbiamo coltivare le patate solo per McDonald e per PEPSI ?”. Così adesso le patate che da McDonald prima erano chiamate frech… adesso sono chiamate free, “patate della libertà” a causa del dibattito che c’è stato in passato. Questa standardizzazione della patata comporta la creazione di un unico tipo di patata in tutto il mondo.

Per quanto riguarda la sanità, ci sono degli standard pseudo-igienici, come io li definisco. Nel WTO ci sono degli accordi che vengono definiti ‘sanitari’, ‘a difesa della salute del consumatore’, e so che sono stati recepiti da gran parte delle regolamentazioni europee. Ma essi non sono di certo relativi alla sicurezza del cibo, alla sicurezza alimentare. In realtà, si riferiscono alla misurazione del cibo, degli elementi, delle materie prime. E soprattutto riguardano un’industrializzazione che tenta di chiudere le produzioni su piccola scala. Nel nostro paese, ce ne siamo resi conto nel 1998 quando il nostro olio è stato proibito perché veniva prodotto in mulini locali, veniva prodotto localmente. La lobby degli Stati Uniti ha creato una direttiva sul modo di confezionare l’olio in cui veniva imposto che non poteva essere venduto olio all’estero, a meno che non fosse stato confezionato in contenitori di plastica. E questo ha comportato l’eliminazione forzata di un milione di piante di ulivo in tutta l’India. Le hanno dovute abbattere e 10.000 produttori di semi di senape hanno dovuto abbandonare la propria attività. È stata in quest’occasione che io mi sono imposta con un progetto di non cooperazione ed ho portato l’olio prodotto dai semi di canapa direttamente alla vendita. Ora ci stiamo proprio battendo per la promozione dei nostri oli tipici, innanzitutto perché sono più ricchi di sostanze naturali e sono anche più gustosi. E stiamo anche combattendo, insieme a Slow Food, per far sì che venga recepito questo valore dei nostri oli, in particolare di quello di semi di senape.

Per quelli che pensano che solo i ricchi possono preoccuparsi del gusto vorrei raccontare una sorta di aneddoto. Io stessa sono arrivata a preoccuparmi di questo argomento nell’agosto del 1998, quando hanno proibito l’utilizzo dei semi di senape. Ero a letto ammalata. Una donna dei quartieri poveri di Nuova Dehli mi ha chiamato e mi ha detto che i suoi figli non mangiavano perché si rifiutavano di mangiare cibo cucinato con olio importato. E questa donna, che veniva appunto dai quartieri poveri di Nuova Dehli, mi disse “noi abbiamo bisogno del nostro olio di semi di canapa, altrimenti i nostri bambini non mangeranno e morranno di fame”. Promisi loro che nel momento in cui mi sarei rimessa e sarei guarita, mi sarei attivata per combattere questa lotta per i semi di senape. E altre centinaia di persone mi hanno insegnato, mi hanno fatto capire che per la gente povera del mondo il diritto al cibo non è il diritto al cibo di scarsa qualità, al cibo cattivo. Il diritto al cibo è un diritto al cibo culturalmente adeguato. Al buon cibo. Al cibo sicuro. Ed ogni madre in un quartiere povero, in Italia, in India, in un paese o in una città lo sa bene.

Sono felice di partecipare a momenti in cui ci si riunisce per creare un movimento in cui la biodiversità può essere qualcosa di globalizzato. Perché la biodiversità può collegare, la biodiversità può collegare le comunità che lottano per questo stesso obiettivo. Dobbiamo combattere per i diritti dei nostri agricoltori. E siamo collegati alla sicurezza e alla sanità del nostro pianeta e delle popolazioni del mondo. Partecipo a questi momenti perché quindici anni fa mi sono resa conto che alcune multinazionali volevano il monopolio per la biodiversità, volevano tutto soggetto a brevetti, si aspettavano che noi diventassimo schiavi di tutti questi processi commerciali ed economici, volevano creare una società monopolistica. Io ho un sogno, il sogno di un mondo caratterizzato dalla biodiversità e dalla natura, ove esse possano costituire realmente la concretizzazione della nostra libertà e della nostra democrazia.

Vandana Shiva

(traduzione dall’inglese di Serenella Vasini, testo curato da Thomas Casadei)